Viaggio nel Portogallo devastato, dove i boschi bruciano ancora - Il Secolo XIX

2022-09-10 04:49:16 By : Ms. Eileen Bai

Tra i superstiti a una settimana dagli incendi di Pedrógão  Grande e Goìs. Il governo apre un’inchiesta sulle cause dei roghi

Gòis - Il casolare sopra Gòis è a mezza costa, costruito con gli scisti duri di queste montagne. Lo cinge un muricciolo che sembra aver arrestato per poco il fuoco; le scorie degli alberi in fiamme, scorticati, arsi, gli si ammonticchiano addosso adagio adagio. Sembra si gonfino come un rettile immane irritato, e scoppiano in larghi crepacci infuocati. La montagna, intorno, è già tutta nera di scorie fumanti che si squarciano qua e là e avvampano sotto l’urto implacabile del vento e i pini, anneriti, amputati dal fuoco, irrompono in quei crepacci di fuoco con un acciottolio sinistro, prolungato, come di una immensa distesa di tegole che rovini.

In cielo compie, lento, i suoi giri un elicottero giallo con il basto d’acqua cercando il punto migliore per sgravarsi e contrastare le fiamme.

Il fuoco dà un aspetto di cosa viva a quella casuccia abbandonata in mezzo alla distruzione. Di tanto in tanto si vede stagliarsi sulle fiamme un uomo che sembrava nero nel riflesso ardente e piccolo per la distanza, impegnato a salvare le ultime cose.

Dal poggio del paese, bianco, che sembra posare su un fragile cuscino di verde, pronto a crollare in polvere e dissolversi, terra che ritorna alla terra, tormentati dal fumo che li acceca e dal calore che toglie il respiro, un gruppo di persone lancia grida invitando l’uomo a fuggire, a mettersi in salvo.

Tutto ad un tratto l’albero accanto alla casa avvampa come una fiaccola e il fuoco si rovescia nel cortile e non si vede altro che il rosseggiare del fronte di fuoco che irrompe e inghiotte. Poi la corrente infuocata di colpo cambia direzione e torna indietro come colta da una idea nuova di distruzione. L’uomo risale il sentiero, con pena, tirandosi dietro cose. Sopra a tutto l’azzurro, aspro cielo alcalino.

La strage Quasi una settimana dopo l’incendio che ha provocato 64 morti e immense distruzioni ripercorro questo Nord del Portogallo e scopro che tutto l’orizzonte di montagne e di selve ancora arde di nuvole di fumo, sulle chine ove ancora bruciano boschi, il fuoco sembra sgorgare dalla terra stessa quasi si fosse aperto un cratere; mentre i pendii che la burocrazia definisce sotto controllo, domati, sanguinano di fumo i solchi ancora coperti di brace, come ferite su un fianco umano squarciato a morte.

«Fogo»: è la parola portoghese che ho imparato più rapidamente, ripetuta mille volte, a Goìs, a Pampillosa de Serra, a Pedrogao Grande, a Maderinho. «Fogo»: la paura che diventi, in questa estate torrida appena iniziata, una maledizione senza fine, a fianco della rabbia, delle accuse che scuotono il governo di Antonio Costa. Perché la spiegazione del disastro che incolpava, all’inizio, solo una natura matrigna, il fulmine di un temporale secco dove la pioggia evapora per il calore prima ancor di toccar terra, appare sempre più incerta. E non basta accusare il riscaldamento del pianeta e la natura cattiva, leopardiana, che in fondo mette tutti sullo stesso piano: ci sarebbe, ancora una volta, la mano criminale dell’uomo come proverebbero i focolai contemporanei e l’accusa del capo dei «bombeiros», i vigili del fuoco, che parla di incendio doloso. Una inchiesta della magistratura cerca, affannosamente, già gli incendiari. E gli altri colpevoli.

Sì, perché crepitano come fiamme le constatazioni delle inefficenze, ritardi, errori che hanno trasformato un incendio, frequente in questa parte del Portogallo che è una selva immensa di pini ed eucalipti, in strage: la soglia di allarme alzata con colpevole ritardo, la norma che vieta di piantar alberi fino a dieci metri dalle strade non rispettata che le ha trasformate in una trappola di fuoco, la polizia che ha dirottato la gente che fuggiva proprio sulla strada 236 che era un braciere e si è chiusa su di loro, i volontari arrivati dalla Galizia, molto esperti, mandati a casa come inutili dal ministro degli Interni. Contestatissimo come il premier che aveva promesso anni fa di cancellare la piaga degli incendi.

In fuga dall’orrore Ascolto voci di superstiti, che si riuniscono come se ci fosse tra loro una nuova connessione corporale. «Avevamo un camion, grande lungo era tutto quello che ci dava da vivere. Era parcheggiato a poca distanza da casa. Mio figlio quando gli alberi hanno cominciato a bruciare e le tegole sul tetto esplodevano per il calore ha detto: papà vado a vedere, forse riesco a spostarlo dobbiamo salvarlo... salvarlo capisce come se fosse una persona viva. Ecco il camion è qui carbonizzato come i pini guarda l’asfalto. Vedi quelle gocce chiare solide? È il metallo fuso dal calore che è colato a terra. Di mio figlio non c’è traccia».

Da Goìs, dove è il comando delle operazioni di soccorsi, saliamo per stretti impervi sentieri sulla montagna fino alla cima dove pale eoliche, intatte, continuano indifferenti il loro lento ruotare. La montagna per tratti infiniti, denudata dal fuoco, è spoglia, nera di cenere. Si è sciolta: nel suo io invisibile. Una necropoli vegetale. È ancora più di un deserto, è un continente ulteriore dove la natura è stata uccisa, la terra sfuma in nulla, logora di alberi, arbusti, erba che ora sembrano spazi vuoti, spazi puri. E dove il fuoco non ha toccato, il bosco anche lui è di nulla, di un verde di mare morto.

L’incendio lascia il silenzio, non odi più uccelli voci di uomini. E poi ha il suo odore, odore di lava, di cenere che avverti da lontano e dura ancora. Quando, sceso a valle, ho sentito di nuovo il frinire delle cicale stordite dal caldo e l’odore di sole, privo di ogni acredine di combustibile, ho gioito, ecco, la vita continua e riprende.

L’inganno della 236 «Eravamo in auto per andare in una delle spiagge fluviali a passare la giornata. Attorno a noi era già un caos di fuoco di fumo. Ci hanno detto “prendete la 236 e mettetevi al sicuro”, e invece... lingue di fuoco rimbalzavano sull’asfalto quando gli alberi in fiamme toccavano terra. Vedevo la gente ardere attorno a me urlava aiutatemi e non potevo fare niente. Lì c’è il segno lasciato dalla mia auto bruciata la carcassa l’hanno appena portata via. Questa donna che si chiama Maria de Concencao ha salvato me e mio marito, ci ha trascinato via correvamo correvamo in mezzo al fumo e al fuoco non sapevamo neppure dove eravamo. Le devo la vita e adesso tutti intervistano me come se fosse io l’eroina».

Il cuore si stringe perché salendo da Lisbona verso Coimbra, per duecento chilometri, vedi come era la selva. Prima. Il «mata reao», la foresta reale, fatta di pini dritti e alti, allevati con tenerezza per il fasciame e la resina per armare e catalafare le caracche con cui per secoli i portoghesi sono andati alla conquista del mondo. Poi sono venuti gli eucalipti, per la cellulosa e le essenze che rendono molto. Persino le foglie degli alberi giovani, azzurre come il mare, prima di diventare di un verde spento, rendono, camion di foglie spedite in Olanda dove le utilizzano per gli addobbi floreali. Densa come una città la selva muove enormi interessi. E ci attrae, abolisce il mondo esteriore, un universo cede il posto ad un altro. La foresta è un ammasso di ribollimenti solidificati, un mondo planetario ricco come il nostro.

Tutto questo non esiste più, ventimila ettari annichiliti, solidificati in una lava polverosa. I segnali stradali si sono sciolti, il calore dell’incendio ha deformato i guard rail.

L’ultimo addio «Ero in auto, alberi di fiamme sono caduti, hanno bloccato la strada, i motori si sono spenti perché non c’era più ossigeno, nel buio del fumo ci urtavamo. Da una casa ci hanno chiamato entrate salvatevi... Io ho cominciato a pregare pregavo e aspettavo la morte. Gli altri intorno a me parlavano al telefonino freneticamente ogni tanto la linea si interrompeva ma loro richiamavano richiamavano: per dire a chi era dall’altra parte ti amo, addio».

In quella che era la foresta lungo la 236 ho visto per chilometri che anche gli alberi si piegano per il dolore, lottano per non morire. Il vento rovente li spingeva a terra, l’acqua che era in loro li teneva ancora in vita: e loro palpitavano come scossi da morte. Sono rimasti così, per distese sterminate curvi in quell’ultimo sussulto nel fuoco.

«Sono un prete: non le racconto nulla, lei ha visto. Ai miei parrocchiani ricordo solo una data, un anniversario che è vicino, il 13 luglio 1917. Quando a Fatima, non lontano di qui, a suor Lucia e i due bambini ebbero una visione, un oceano di fuoco e i dannati e i demoni sospesi in questo incendio, sollevati dalle fiamme in nubi di fumo che ricadevano come scintille da ogni parte senza peso e equilibrio».

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