La carovana dei miserabili -

2022-06-19 00:11:22 By : Ms. Sunny Wu

Una vita d’alpinismo – 95 – Mezzogiorno di Pietra – 1 (AG 1981-001)

Il ’68 e l’arrampicata Dopo lo shock dell’articolo I falliti di Gian Piero Motti, apparso sulla Rivista Mensile del CAI, dopo il Sessantotto politico, ecco una lunga crisi transitoria… poi ecco il rinnovamento per averla superata… il free climbing, ovvero il Nuovo Mattino. Sì, il Nuovo Mattino è stato una conseguenza del Sessantotto, soprattutto in Italia.

Ma presto la filosofia che ne era alla base si rivelò assai più complicata della semplicità apparente, subdolamente bifronte, aprendo la strada a un’attività profondamente diversa, quella che fu poi chiamata arrampicata sportiva. Questa si è incanalata nelle vie domestiche dell’attrezzatura “come si deve” o della competizione, non certo previste nel free climbing, seguendo una generale tendenza alla deresponsabilizzazione del singolo che, parallelamente a ciò che succedeva nella società, invase l’insegnamento della pratica alpinistica come pure la proposta turistica in generale.

L’arrampicata sportiva, apparentemente così individuale, è dominata dal collettivo, ha perso quella fantasia che, anche se non è mai stata al potere come avrebbero voluto Daniel Cohn-Bendit e gli studenti di Parigi, era bene che comunque albergasse nelle azioni dei singoli almeno un pochino.

Quanti fanno oggi del free climbing vero? Il Sessantotto tradì le aspettative e rivelò insito un grande e potenziale pericolo per l’individuo, colpendo al cuore proprio la sua responsabilità e agitandogli davanti piacevoli fantasmi edonistici di un’organizzazione che pensa per lui, lo coccola e lo illude, esattamente come l’arrampicata sportiva è compresa nel miraggio della “montagna sicura” e s’illude, nella suprema fatica atletica, di aver eliminato ogni pericolo mortale o di sofferenza.

Ivan Guerini L’uscita del mio libro Cento Nuovi Mattini fu, un po’ imprevedibilmente, abbastanza epocale. L’interesse si destò attorno alle falesie, viste non più come allenamento alle grandi imprese alpinistiche, bensì come terreno di gioco a se stante. Ci eravamo arrivati grazie alle pratiche e filosofie dei vari Nuovi mattini nel mondo, era un po’ il ’68 dell’arrampicata.

Io avevo già in programma un secondo libro che illustrasse le nuove frontiere al Sud dell’Italia, che coniugasse quindi spettacolarità dei territori con l’arrampicata moderna. La grande attesa che era attorno a Cento Nuovi mattini ancora molto prima della sua uscita (settembre 1981) m’incoraggiò a non avere più alcun indugio e a preparare quella che sarebbe diventata una vera e propria spedizione.

Così, dopo il mio breve viaggio in Sardegna tra giugno e luglio 1980, mi dedicai seriamente a questo nuovo progetto.

Decisi che una prima sezione del viaggio sarebbe stata a gennaio 1981. I preparativi furono febbrili, dovevo pensare ad acquistare tutte le carte IGMI che pensavo potessero interessare, ma soprattutto dovevo formare una squadra. Avevo bisogno di compagni, ma anche di capicordata: solo così potevo pensare di esplorare a fondo le varie zone, impegnando più cordate nello stesso giorno.

Ivan Guerini, allora già ben noto per la proclamazione del settimo grado sul suo Oceano irrazionale al Precipizio degli Asteroidi e per il suo fortunato libro Il gioco-arrampicata in Valle di Mello, era il personaggio con la più grande disponibilità di tempo che conoscessi. Inoltre a lui dovevo molto per ciò che riguarda la mia evoluzione da alpinista puro e crudo a qualcun altro che non capivo ancora bene. Reduce dal K2 (la mia terza spedizione), avevo frequentato i Sassisti e altri ragazzi molto giovani come Gabriele Beuchod, Guido Azzalea, Marco Marantonio; avevo intensificato la mia amicizia con Gian Piero Motti, messo in pratica i principi del Nuovo Mattino: ma era stato anche Ivan a mettermi di fronte, con le sue pungenti osservazioni, alle mie contraddizioni.

Fino a un certo punto avevo accettato l’esempio e l’insegnamento in vista di alcune migliorie del mio modo di essere: quando poi capii che inconsapevolmente Ivan tendeva a una mia completa conversione, il gioco mi piacque meno. Ero abbastanza lucido per sapere che la mia strada me la dovevo cercare da solo, come tutti, del resto.

Perciò, dopo un primo accordo di massima che vedeva Ivan come attore principale nel mio team, arrivai alla conclusione che, se volevo che la regia fosse solo mia, dovevo fare a meno di lui. Era un peccato, una perdita preziosa, ma era necessario. Già sui primi particolari nei preparativi mi ero accorto che non eravamo in sintonia. Per esempio, ricordo che mentre io vagheggiavo di percorrere tutto il Meridione con un raid prolungato, intensivo ed efficiente, nella mente di Ivan ciò sarebbe stato pazzesco, preferendo lui dedicarsi con calma e relax alle zone più promettenti dal punto di vista estetico. E, ripeto, lui pervicacemente voleva cambiarmi il pensiero (per il mio bene, diceva) e questo non era accettabile. Anche perché da tempo io avevo rinunciato a fare lo stesso con lui…

La partenza 7 gennaio 1981. Il Ford Transit immatricolato in Niger ci sorpassa, per poi imboccare lo svincolo dell’area di servizio di Gropello Cairoli.

– Manolo ha sete, capo – si scusa Roberto. – Vado a bere qualcosa, venite? – No, grazie, non abbiamo voglia di niente.

Senza altre parole Manolo si avvia verso la grottesca costruzione di cemento armato. Rimaniamo in quattro, irrigiditi nell’aria gelida che il sole brillante non riesce a scaldare. Le spalle alzate, ci dondoliamo sui piedi.

– Ha ingurgitato una scatola intera di formaggini Tigre e una di tonno… dev’essere un po’ ingolfato. – Lo dicevo che ieri sera aveva fame, lui negava, noi non gli abbiamo dato niente. Ma senti un po’, che tipo è? – Ah, non parla, avrà detto sì e no sei parole, con poche sillabe. – Ma poi vedrai che migliora – concilio io. – Beh, comunque, per ora posso solo dire che non abbaia e non sporca… – conclude Roberto.

A Genova incontriamo mio padre. Lo bacio, poi gli presento Monica che gli sorride tra due giganteschi orecchini a mezzaluna. Poi ci sono gli affettuosi saluti con Nella. Roberto è ben presentabile, Manolo ha invece i capelli che gli coprono le spalle e gli s’intravvedono appena gli occhi azzurri sotto alle frange.

– Chissà dove va mio figlio con questo capellone – penserà mio padre.

Anche qui fa freddo, perciò ci rifugiamo senza indugio nell’Apollo 11, una trattoria di piazza Palermo. Non abbiamo fretta, c’è lo sciopero dei traghetti. Ci andremo poi al porto, a vedere.

– Ah, così siete in cinque. Tre uomini e due donne? Quindi lei, signorina, dormirà con due uomini… – Eh, già – risponde pronta Monica, senza arrossire e senza abbassare gli occhi.

– C’è ancora puzza di cane bagnato nel tuo camper, Roberto? – chiedo io per sviare il discorso. Intanto ci servono gli gnocchi al pesto. – Puzza di cane bagnato? E quando mai c’è stata? Non la sopporterei. – Questa mattina, in via Volta, quando ti ho svegliato aprendo la porta, c’era una puzza del genere. – Ma perché, scusa… non ti piacciono i cani? – chiede Monica. – Quando ero piccolo un cane mi ha masticato quest’orecchio – racconta Roberto – la vedi la cicatrice? Per di più lo ha fatto mentre gli davo da mangiare dei pavesini… il cane è pavido e senza dignità.

Non riesco a sentire come davvero disastrosa la forte probabilità di rimanere qui, in “continente”, per altre 24 ore. Eppure il nostro viaggio è calcolato in modo tale… i giorni sono contati, qualunque contrattempo può tramutarsi in una reale perdita di danaro. Ma c’è un pensiero che mi consola: se comincio ad arrabbiarmi adesso, cosa succederà poi?

Inutile prendersela. Ciò che si poteva disporre per la riuscita del progetto è stato impostato. Quando l’azione non è più affidata a noi, basta avere l’umiltà di accettarlo come un altro fatto, non diverso dalle difficoltà sulle quali si è lavorato nella stesura del piano.

Con questa serenità apprendiamo che lo sciopero è nazionale, che durerà un’altra giornata, che forse domani si potrà andare a Porto Torres.

Sui moli imperversano violente raffiche di tramontana e, approfittando di un primo sommario riordino delle vetture, sfoderiamo giacche di piumino e sovrapantaloni imbottiti.

L’impiegato è gentile e, contrariamente al solito, si fa udire tramite un congegno che amplifica la sua voce. La cadenza genovese della sua voce è forte. Amplifico la mia, per fargli capire che non sono un “foresto”. Allo sportello c’è la coda di gente che non s’arrende, che vuole sapere, che fino all’ultimo attende la notizia ufficiale che la nave non parte.

– Ma ve l’ho detto, non fatevi illusioni. Gli ufficiali hanno già aderito, è solo più una questione formale. Al 99,99% non si parte!

– Cosa ha detto…? Cosa ha detto? – incalza uno da dietro. – Che non può dire che la nave non parte, ma comunque… la nave non parte. – E quando lo può dire? – Un po’ di pazienza. Ci vuole pazienza – chi parla è un tipo di statura mediocre, portamento eretto e pretenzioso, capelli lunghi sul retro-collo, cappotto beige – se si va in Sardegna bisogna avere pazienza. Lei è sardo? – No. – Beh, i sardi pazienza ne hanno tanta a essere colonia dell’Italia. E guardi che io non sono sardo. Eppure lo so bene che vivo in colonia… – Ma, se è per quello, l’Italia è colonia dell’America! – Sì, ma la Sardegna è colonia dell’Italia. – Ma io faccio un altro discorso: lei non sa quanti soldi ho in tasca io e io non so quanti ne ha lei. Però qui c’è gente che stanotte un albergo non se lo può permettere. Questi scioperi portano disagio solo a noi, dovrebbero capirlo. – La prossima volta che voto, una bella scheda bianca! Me la voglio togliere questa soddisfazione! – E a che serve? – Niente, è una forma di protesta. Altrimenti diventiamo tutti brigatisti!

Intanto, al molo, una nave-canguro ha attraccato. Uno stizzoso signore, con un colbacco nero calcato in testa, impreca contro tutti.

– Ma se ne vada da lì, e spenga quel motore… Vada, vada, faccia presto.

Altri sedicenti nostromi aizzano le auto uscenti dal ventre della nave, volgari imprecazioni s’incrociano in ogni dialetto. La nave viene da Porto Torres, ma è sicuro che per quarantotto ore non si muove da lì… e te lo dicono con burbero sadismo.

Nel camper intanto si levano grandi nubi di fumo, Roberto e Manolo fanno a gara a offrirsi sigarette una dopo l’altra; Monica, che fino a ieri fumava una sigaretta al giorno, è sempre con la cicca in mano.

– Non rovinatemela, eh… – mi raccomando io. – Non la obblighiamo, capo!

8 gennaio 1981. Temperatura 0° in auto, il sole si alza su una fredda Liguria ventosa e devastata dagli incendi. L’azzurro del mare non indica onde grosse, il vento è sempre di nord.

Il desiderio e la necessità di partire sottolineano la mia dolorosa estraneità a questa terra una volta così bella. Ho voglia di scrivere qualcosa però il freddo mi boicotta, così sto tappato nel saccopiuma.

In un lodevole sforzo di volontà Nella decide di fare una corsa, per scaldarsi un po’. Si allontana rapidamente con la giacca di piumino addosso, ma poco dopo è di ritorno.

– Sei già qui? – Sì… troppo freddo.

Nel camper nigeriano l’attività non è maggiore. Viene sperimentato l’uso del fornello a due fuochi con bombola a gas liquido, con piena soddisfazione di tutti, perché l’acqua bolle rapidamente.

– Volete del latte in polvere? – offro. – Quale – risponde Manolo – quello che “sa da” fungo? – Come, sa da fungo? – si preoccupa Monica. – Ah, io bevo solo il tè. – Vabbè, io mi faccio il latte, poi vedremo cosa c’entrano i funghi. A Finale, l’avevi tu in bocca il sapore di fungo… – Capo, mi dai del tè? Qui non ce n’è. Torno sul Wolkswagen, prendo il tè e il termometro.

– Roberto, se non mi chiami più capo, ti faccio un regalo. Ci stai? – Va bene, capo!

Mi aveva chiesto il termometro più di un anno prima, sembra contento del nuovo oggetto in dotazione al camper.

Il pomeriggio è lungo, e dopo una selvaggia spaghettata alla vista dei passanti, Roberto, Manolo e Monica chiacchierano a lungo. Soprattutto i due maschi tentano di conoscersi, si usmano come nei primi approcci canini. Si raccontano le più recenti esperienze di arrampicata. Per esempio Manolo racconta come l’estate prima abbia fatto una via nuova sul Sass Maor, la Supermatita, lunga 1300 m, con difficoltà superiori alla Demande in Verdon, con sette chiodi di assicurazione.

– Ma c’erano molte clessidre, e ho messo qualche nut… – Ma a te le corde, visto che ci tieni tanto ad averle nuove, che ti servono? – Le soste le fai bene? – Ostia, le soste! Sì, eh…! Le soste bisogna ben farle! – Ma di corde ne abbiamo, se per caso se ne rompe una ci sono le altre. – Se si rompe una corda, avremo un’imbragatura in eccesso… – la battuta è di Roberto.

La Rocca della Bagassa La Nurra è una grande pianura, la seconda della Sardegna (dopo il Campidano), non molto coltivata, con poca acqua. Paesaggio severo ma non monotono, verso occidente si movimenta con alcuni rilievi prima di abbassarsi definitivamente al mare. Sulla costa l’uomo nei secoli ha compiuto visibili e duraturi interventi per estrarre i mi­nerali, con ferite a squarcio che mai si rimargineranno.

9 gennaio. Da Porto Torres ci avviammo subito a Capo Argentiera, approfittando di un tiepido sole traversammo la macchia alla ricerca di falesie che credevo ci fossero. Nulla! Sulla via del ritorno per Porto Torres, a La Corte, ecco emergere un rilievo scuro, visibilmente tafonato. Mi piacque, per quel giorno poteva andare bene. Era di quarzite. Lo salimmo Manolo, Roberto e io in tre quarti d’ora, al vento minaccioso di pioggia. Una via a ogni costo, la chiamammo. In basso domandammo a due pastori che nome aveva quella montagna e loro ridendo e ammiccando ci risposero che dalle loro parti era la “Rocca della Bagassa”! Beh, se non altro si è concessa facilmente!

Sperone del Grifone Capo Caccia, enorme blocco di calcare del Cretacico superiore, ricoperto di cespugli in alto e con altissime pareti rocciose precipiti sul mare, offre una perfetta sintesi dei gioielli del Mediterraneo: una macchia verdissima incorona pareti pallide e rosate, lisciate dai venti; grotte profonde e misteriose in cui il mare penetra seguendo percorsi non del tutto conosciuti, tra fondali trasparenti e selvaggi che inabissano con pari violenza le caratteristiche verticali delle aree emerse; mare azzurro di un blu uniforme.

Non avevo a disposizione alcuna fotografia della lunga costa rocciosa, era necessario (e lo avevo previsto) un giro in gommone per scattare fotografie e decidere le linee. Dovevamo coprire una distanza di circa 12 km per arrivare sotto a Punta Cristallo dove era presumibile la maggior potenza di roccia.

Ernesto Fabbri mi aveva prestato il suo gommone, insegnandomi a manovrarlo sul Lago di Como. Non mi sentivo molto a mio agio, ma confidavo che qualcuno del gruppo fosse più esperto di me.

Partimmo al mattino presto del 10 gennaio, in quattro, lasciando Nella a guardia dei furgoni. Avevo anche distribuito le maglie di cui Longoni ci aveva omaggiati. C’era un freddo siderale ed eravamo imbacuccati con duvet e sovrapantaloni imbottiti. Il mare era calmo e andavamo spediti. Girammo il Capo Caccia vero e proprio, navigammo tra l’Isola Foradada e la Cala Inferno e poi sotto alla lunga scogliera della Torre del Pegna. Il mare qui, esposto al maestrale, era molto più agitato e lo divenne ancor più quando passammo tra Cala della Puntetta e l’Isola Piana. In corrispondenza di Cala Barca valutai se era il caso di tornare, poi osammo proseguire fino a sotto Punta Carone e Punta Cristallo. Eravamo arrivati, ma a che prezzo!

Il cielo si era ingrigito e il vento fischiava accavallando le folate. Il mare, assai increspato, s’accaniva con ondate sulla scogliera, quasi in rab­biosa gara con le moli rocciose. Notammo che non si vedevano più piccioni selvatici, né gabbiani né cormorani. Tutto era in attesa della prevedibile buriana.

Ebbi però la reale misura di cosa stavamo facendo solo quando il motore si spense. Eravamo a un centinaio di metri dagli scogli, sotto la parete che qui si presenta con l’altezza maggiore. Non si vedeva la minima caletta per un attracco, solo spruzzi che s’innalzavano con violenza sugli scogli. Ci stavamo avvicinando… il mare ci spingeva al naufragio!

I miei compagni erano stranamente tranquilli, Roberto cercava con freddezza di riavviare il maledetto motore. E mentre Monica era fiduciosa, Manolo diceva che in Calanques se l’era vista più brutta.

– Più brutta… come fai a dirlo? Qui non è ancora finita! – Ma dai… è gestibile! – Sì, è gestibile… finire in acqua ora, con ‘sto freddo… e le macchine fotografiche!

In quella Roberto riuscì a dare il tocco giusto al tirante… e si udì un brontolio tossicchiante che presto divenne rombo!

– Capo, certo che un uomo ligure e di mare come te…!

La nostra fu una fuga, non osavo neanche scattare foto nell’illusione di fare prima. Eravamo intirizziti. Non c’era pace, né sulle pareti, né sul mare, né dentro di me. Non so dove fosse arretrata.

Nel pomeriggio, al Semaforo, aprimmo Colata di Zolfo. Il maestrale era calato di colpo, era molto umido. “Sembrava di scalare sull’olio, si scivolava” ricorda Manolo.

Il giorno 11, tempo passabile, clima più secco ma freddo. Andammo tutti assieme (con esclusione di Nella) alla Torre del Pegna. Tutto filò liscio, la calata come l’avevamo studiata il giorno prima e la salita, compiuta in allegria, dello Sperone del Grifone.

Un giorno vedremo ancora le lente evoluzioni nelle correnti ascensionali di quei pochi grifoni? Oppure ci troveremo a osservare istupiditi il vuoto di morte da loro lasciato, incapaci di capire che cosa ci attanaglia la gola?

Tegole Grigie e Cristalli di Paura Il 12 era tempo bellissimo e ancora più freddo. Ancora in quattro, ci spingemmo alla sommità di Capo Caccia. Erano due gli speroni che avevamo individuato, con un’unica discesa a corde doppie nell’incavo tra i due. Monica e io salimmo Tegole grigie a Punta Carone, una via bellissima di 170 m con un caratteristico passaggio assai esposto e poco proteggibile, come se si arrampicasse su tegole messe in verticale. Roberto e Manolo salirono invece la magnifica Cristalli di Paura a Punta Cristallo. Usciti prima di loro, li fotografai nell’espostissima parte alta, affilata. Manolo saliva come un gatto nel sole calante. Roberto, giunto in vetta, baciò terra. In discesa, mentre Manolo era avanti con Monica, mi confidò: – Minchia, vedessi che soste che faceva… neppure un kamikaze sarebbe stato contento! E oggi ribadisce: – A me allora sembrava di essere giovane e abbastanza pazzo, ma quello aveva un’idea ben diversa sulle protezioni. E le soste? Erano “disegnate”.

La Grotta del Bue Marino Di passaggio a Sassari, dopo quattro giorni di riso e pasta, Manolo si alleò con Roberto e ci fu la prima gentile richiesta: “perché non compriamo delle bistecche?”. Eravamo al mercato, ci accordammo su due belle forme di caciocavallo.

Da una superstrada poco oltre la città notai una lunga falesia facilmente raggiungibile: il Monte Istoccu. Ovviamente faceva freddo e stava per piovere, salimmo per la gariga fino alle rocce. Sullo spigolo nord Nella e io aprimmo Grandine a volontà, mentre Manolo e Monica salivano Paperella Show, un breve muro assai intenso che richiese alla poverina ogni energia. Bagnati fradici raggiungemmo i nostri mezzi e ci allontanammo definitivamente dalla provincia di Sassari, diretti a Cala Gonone. Durante il tragitto Nella lesse ad alta voce che la Sardegna una volta era il regno del leccio. Dopo l’unificazione d’Italia ci fu la distruzione di ben 586.000 ettari di querce, una superficie ben superiore all’estensione della Li­guria, per le traversine necessarie alla rete ferroviaria italiana.

A Cala Gonone toccammo il fondo perché nella solitudine invernale del provvisorio abbandono turistico lessi l’assurdità del luogo. Vidi gli incendi alla periferia, per incuria e per dolo; vidi la discarica che d’estate raccoglieva rifiuti in quantità metropolitane e che d’inverno al soffio gelido del grecale disperdeva l’im­mondizia attorno per parecchi chilometri. Dar fuoco ai rifiuti non si può, il vento in breve propagherebbe le fiamme a tutto il paese e alle leccete che ancora contornano da lontano questo triste scenario.

Andammo a Cala Fuili con l’intenzione di traversare la scogliera fino a raggiungere la Grotta del Bue Marino. Passavamo da belle rocce a grotte anche lunghe, per finire poi su una parete verticale inscalabile con mezzi veloci. Forse avremmo potuto andare avanti se avessimo messo i piedi in acqua, ma con quel freddo e quel mare mosso non era proprio il caso. Riuscimmo con un tiro difficile a guadagnare l’orlo superiore, per poi cinghialare a ritroso fino a Cala Fuili. Dalla luce alle tenebre è il nome di quello che oggi si chiamerebbe un bellissimo deep water climbing.

Gennaio 1983, Capo Caccia. Arrivati in vespa durante un week end, che prevedeva anche visita a delle amiche,  da Genova con Giorgio Rosasco ci accampammo per la notte sull’altipiano con tendina monotelo che non teneva la pioggia ma con catino stagno. Piovve a lungo e in tenda tutto galleggiava. La mattina, già inzuppati, ci calammo (pioveva ancora) da punto imprecisato fino al pelo dell’acqua attrezzando diverse doppie, da dove risalimmo per strapiombi fessurati sbucando dalla vespa in tempo per inforcarla e correre a Porto Torres a prendere il traghetto per Genova.La mattina arrivammo puntuali al lavoro da Grillo Sport.Lungo la parete non incontrammo alcun segno di passaggio. La (nuova?) via non era per nulla facile e la roccia non era sempre buona. Non avrei assolutamente idea del punto esatto in cui arrampicammo sotto una pioggerellina fitta fitta. Mi consola che anche Manolo mi ha detto che non saprebbe ritrovare le vie che avevate aperto quella volta. Comunque bei racconti.

Alessandro ci sta raccontando i tempi in cui nacque l’arrampicata moderna. Molto bello

Avrei voluto essere tra quei “Miserabili”.

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