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2022-06-19 00:13:28 By : Ms. Sharon Fu

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1065, febbraio 2022. La prima cosa che ho conosciuto di Junya Ishigami è stato il nome. Da lì è cominciato tutto. Ho sentito parlare di lui per la prima volta nel 2007, durante un viaggio a Tokyo, così sono andato a visitare la sua installazione Balloon al MOT, il museo di arte contemporanea.

Sono rimasto incantato da quella struttura così grande che, nonostante il suo design stravagante, appariva leggera come una nuvola.

Il sito dove ho progettato la casa per mia madre ospitava originariamente l’abitazione dei miei nonni, in cui ho trascorso i primi anni della mia vita. L’edificio faceva parte di un vecchio villaggio agricolo circondato da campi di riso che si estendevano verso ovest, mentre in lontananza si scorgevano le montagne. I miei ricordi d’infanzia sono legati al giardino di quella casa, esposto verso sud, all’atmosfera intima favorita dalle siepi e dagli alberi frangivento che lo circondavano. Ero anche attratto dagli interni profondi di quella casa, quasi interamente pavimentata con tatami.

Negli ultimi anni, uno dopo l’altro, in molti dei grandi appezzamenti del villaggio sono stati rimossi i frangiventi che separavano le proprietà, a causa della difficoltà di manutenzione da parte di residenti diventati anziani. A seguito di divisioni ereditarie, poi, alcuni terreni sono stati parcellizzati e su di essi sono state realizzate case più piccole. Il contrasto fra il senso di apertura ininterrotta delle risaie e la sequenza dei giardini privati determinava l’atmosfera caratteristica del villaggio tradizionale, oggi scomparsa.

Dopo la morte dei miei nonni, il sito è stato abbandonato, e la vegetazione è stata tagliata anni fa. Il terreno ha mantenuto la sua divisione originaria, ma l’abitazione è stata abbattuta. Qui, attingendo ai miei ricordi, ho disegnato una casa su misura per mia madre, oggi in fase di completamento: un ambiente dolce, adatto a questo sito. Tutti gli spazi interni, che hanno una profondità di 4,6 m, si affacciano sul giardino, a sud. La linea di gronda si trova a 1,3 m da terra, un po’ meno dell’altezza di mia madre, che potrà così raggiungere il tetto con le mani; questa caratteristica consentirà inoltre una transizione dolce tra il giardino e l’interno.

Gli ambienti si sviluppano da est a ovest, per 32 m complessivi; saranno caratterizzati da finestre lunghe e basse, pavimentati con stuoie di tatami. Aree più illuminate in prossimità delle aperture si alterneranno a zone più scure sul retro: in questo modo, luce e ombra coesisteranno nell’ambiente lungo e stretto della residenza. Il muro che cingerà il giardino sarà visivamente in continuità con quello della casa, mentre il terreno, che parte allineato alla quota della pavimentazione di tatami, formerà una pendenza lieve verso sud.

Raggiungendo il punto più alto del muro di confine, creerà così un terrapieno. Per andare incontro alla passione di mia madre per il giardinaggio, verranno piantumate diverse specie all’esterno: esaltate dalla pendenza del terreno, diventeranno parte integrante del suo quotidiano. In luogo di una barriera frangivento con essenze dalle grandi chiome, quindi, gli alberi saranno posizionati in modo da adattarsi alla scala della vita di chi abita la casa. (Junya Ishigami)

Il sito dove ho progettato la casa per mia madre ospitava originariamente l’abitazione dei miei nonni, in cui ho trascorso i primi anni della mia vita. L’edificio faceva parte di un vecchio villaggio agricolo circondato da campi di riso che si estendevano verso ovest, mentre in lontananza si scorgevano le montagne. I miei ricordi d’infanzia sono legati al giardino di quella casa, esposto verso sud, all’atmosfera intima favorita dalle siepi e dagli alberi frangivento che lo circondavano. Ero anche attratto dagli interni profondi di quella casa, quasi interamente pavimentata con tatami.

Negli ultimi anni, uno dopo l’altro, in molti dei grandi appezzamenti del villaggio sono stati rimossi i frangiventi che separavano le proprietà, a causa della difficoltà di manutenzione da parte di residenti diventati anziani. A seguito di divisioni ereditarie, poi, alcuni terreni sono stati parcellizzati e su di essi sono state realizzate case più piccole. Il contrasto fra il senso di apertura ininterrotta delle risaie e la sequenza dei giardini privati determinava l’atmosfera caratteristica del villaggio tradizionale, oggi scomparsa.

Dopo la morte dei miei nonni, il sito è stato abbandonato, e la vegetazione è stata tagliata anni fa. Il terreno ha mantenuto la sua divisione originaria, ma l’abitazione è stata abbattuta. Qui, attingendo ai miei ricordi, ho disegnato una casa su misura per mia madre, oggi in fase di completamento: un ambiente dolce, adatto a questo sito. Tutti gli spazi interni, che hanno una profondità di 4,6 m, si affacciano sul giardino, a sud. La linea di gronda si trova a 1,3 m da terra, un po’ meno dell’altezza di mia madre, che potrà così raggiungere il tetto con le mani; questa caratteristica consentirà inoltre una transizione dolce tra il giardino e l’interno.

Gli ambienti si sviluppano da est a ovest, per 32 m complessivi; saranno caratterizzati da finestre lunghe e basse, pavimentati con stuoie di tatami. Aree più illuminate in prossimità delle aperture si alterneranno a zone più scure sul retro: in questo modo, luce e ombra coesisteranno nell’ambiente lungo e stretto della residenza. Il muro che cingerà il giardino sarà visivamente in continuità con quello della casa, mentre il terreno, che parte allineato alla quota della pavimentazione di tatami, formerà una pendenza lieve verso sud.

Raggiungendo il punto più alto del muro di confine, creerà così un terrapieno. Per andare incontro alla passione di mia madre per il giardinaggio, verranno piantumate diverse specie all’esterno: esaltate dalla pendenza del terreno, diventeranno parte integrante del suo quotidiano. In luogo di una barriera frangivento con essenze dalle grandi chiome, quindi, gli alberi saranno posizionati in modo da adattarsi alla scala della vita di chi abita la casa. (Junya Ishigami)

Qualche tempo dopo, ci siamo incontrati di persona e, da quel giorno fino all’apertura della sua mostra “Freeing Architecture” alla Fondation Cartier nel 2018, siamo sempre rimasti in contatto, incontrandoci una volta all’anno, per condividere idee e immaginare progetti.

Sin dal primo appuntamento, infatti, sentivo che avremmo collaborato, era come se ne avessi la prova. Non perché mi avesse colpito particolarmente un aspetto teorico del suo lavoro, si trattava più che altro di un’intuizione, difficile da spiegare, alimentata anche dalla lettura dei suoi libri che permettono di immergersi nella sua mente poetica. Nelle sue pubblicazioni, infatti, tutti i disegni sono mondi in miniatura che incorporano elementi naturali, quali nuvole e foreste, nel progetto architettonico.

Table for a Restaurant è stato il mio primo progetto: era un interno di 50 m² nella prefettura di Yamaguchi. Il committente era il proprietario di un ristorante italo-francese e mi aveva chiesto di disegnare “uno spazio adatto alla cucina contemporanea” nella sua città natale. All’epoca avevamo entrambi 20 anni e, così come lui voleva creare qualcosa di nuovo in cucina, io volevo farlo con l’architettura. Nonostante si trattasse solo di un interno, l’ho pensato come un’architettura: nella piccola stanza esistente ho posizionato cinque tavoli rettangolari di acciaio, leggeri e sottili. Il resto dell’ambiente è stato mantenuto il più neutro possibile. A fine lavori, il cliente mi disse: “Se mai dovessi aprire un altro ristorante, chiamerò te”. 

Qualche anno fa, come promesso, mi ha invitato a progettare un nuovo locale che comprendeva la sua residenza. Il sito si trova vicino al primo ristorante ed è collocato su un’altura, accanto a un campo e a una zona boschiva, in un contesto molto gradevole. Il terreno, di circa 1.000 m², è grande abbastanza da lasciare spazio per diversi posti auto. Quando l’ho incontrato, dopo diverso tempo che non ci vedevamo, mi è sembrato uguale, a parte i capelli grigi e il fatto di avere messo su famiglia. Aveva anche spostato la sua attenzione all’autentica cucina francese: mi ha raccontato della cura che mette nel selezionare ingredienti e vini, lasciando trasparire quanto seriamente prenda il suo lavoro.

Fra le poche richieste, ha insistito sul desiderio di “un’architettura che appaia il più possibile pesante e che acquisti una patina nel tempo, qualcosa che racchiuda in sé la ruvidezza della natura. Caratteristiche necessarie per una cucina vera”. È stato allora che ho percepito il grande cambiamento avvenuto nel suo approccio: mangiare in un vecchio izakaya rivestito di legno aggiunge spessore all’esperienza del cibo rispetto a un pasto consumato nella stanza nuova di un centro commerciale.

Voleva inoltre più spazio: per sé, per cucinare comodamente e, per i clienti, per permettere loro di mangiare in libertà. Desiderava avere la possibilità di servire il cibo ai suoi conoscenti non solo nel ristorante, ma anche nel soggiorno di casa e, se capitava, anche ospitarli per la notte. 

Ho dovuto così pensare a come progettare una casa partendo da alcuni elementi d’incertezza: non solo il fascino della struttura doveva aumentare nel tempo, ma il suo deteriorarsi e sporcarsi dovevano fare parte del progetto stesso. Il confine tra le due destinazioni poi non doveva essere netto: la vivacità del ristorante e la quotidianità domestica dovevano incontrarsi in uno spazio solido come una grotta. Per tradurre questa richiesta in un edificio ho pensato quindi di tornare alle basi del processo costruttivo.

Un cantiere normalmente coinvolge tante figure, per cui è necessario organizzare prima ogni elemento, integrandoli poi in un processo armonioso. Stavolta, ho deciso di procedere al contrario, spiegando ad alcuni artigiani ciò che avevo in mente: grazie alla loro professionalità avrei potuto risolvere facilmente gli imprevisti direttamente in cantiere. Il volume è stato definito partendo dall’analisi dello stile di vita del cliente e tradotto in modelli. Il modello finale è stato poi digitalizzato e convertito in 3D.

Le coordinate ottenute sono state inserite in una stazione totale – uno strumento per il rilievo topografico – mentre gli artigiani hanno scavato i fori a mano, verificandone la posizione sul sito usando un iPad. In questa fase, la superficie del terreno ha rivelato diverse cromie e granulometrie, fra cui terra rossa, grigia, verde, strati ghiaiosi e pietre. In alcuni punti, era cresciuta l’erba e, in altri, era franata un po’ di terra, proprio come accade in un paesaggio naturale.

Questi cambiamenti sono stati impressi nel calcestruzzo. Una volta collegati i fori, il calcestruzzo è stato versato nello scavo, usato come stampo. Entro l’estate, finiremo di raschiare via la terra attorno alla struttura e le aperture saranno tamponate col vetro in modo da dare forma agli interni. Lo spirito di questo spazio di cemento non è ancora architettura, ma lo diventerà presto.

Table for a Restaurant è stato il mio primo progetto: era un interno di 50 m² nella prefettura di Yamaguchi. Il committente era il proprietario di un ristorante italo-francese e mi aveva chiesto di disegnare “uno spazio adatto alla cucina contemporanea” nella sua città natale. All’epoca avevamo entrambi 20 anni e, così come lui voleva creare qualcosa di nuovo in cucina, io volevo farlo con l’architettura. Nonostante si trattasse solo di un interno, l’ho pensato come un’architettura: nella piccola stanza esistente ho posizionato cinque tavoli rettangolari di acciaio, leggeri e sottili. Il resto dell’ambiente è stato mantenuto il più neutro possibile. A fine lavori, il cliente mi disse: “Se mai dovessi aprire un altro ristorante, chiamerò te”. 

Qualche anno fa, come promesso, mi ha invitato a progettare un nuovo locale che comprendeva la sua residenza. Il sito si trova vicino al primo ristorante ed è collocato su un’altura, accanto a un campo e a una zona boschiva, in un contesto molto gradevole. Il terreno, di circa 1.000 m², è grande abbastanza da lasciare spazio per diversi posti auto. Quando l’ho incontrato, dopo diverso tempo che non ci vedevamo, mi è sembrato uguale, a parte i capelli grigi e il fatto di avere messo su famiglia. Aveva anche spostato la sua attenzione all’autentica cucina francese: mi ha raccontato della cura che mette nel selezionare ingredienti e vini, lasciando trasparire quanto seriamente prenda il suo lavoro.

Fra le poche richieste, ha insistito sul desiderio di “un’architettura che appaia il più possibile pesante e che acquisti una patina nel tempo, qualcosa che racchiuda in sé la ruvidezza della natura. Caratteristiche necessarie per una cucina vera”. È stato allora che ho percepito il grande cambiamento avvenuto nel suo approccio: mangiare in un vecchio izakaya rivestito di legno aggiunge spessore all’esperienza del cibo rispetto a un pasto consumato nella stanza nuova di un centro commerciale.

Voleva inoltre più spazio: per sé, per cucinare comodamente e, per i clienti, per permettere loro di mangiare in libertà. Desiderava avere la possibilità di servire il cibo ai suoi conoscenti non solo nel ristorante, ma anche nel soggiorno di casa e, se capitava, anche ospitarli per la notte. 

Ho dovuto così pensare a come progettare una casa partendo da alcuni elementi d’incertezza: non solo il fascino della struttura doveva aumentare nel tempo, ma il suo deteriorarsi e sporcarsi dovevano fare parte del progetto stesso. Il confine tra le due destinazioni poi non doveva essere netto: la vivacità del ristorante e la quotidianità domestica dovevano incontrarsi in uno spazio solido come una grotta. Per tradurre questa richiesta in un edificio ho pensato quindi di tornare alle basi del processo costruttivo.

Un cantiere normalmente coinvolge tante figure, per cui è necessario organizzare prima ogni elemento, integrandoli poi in un processo armonioso. Stavolta, ho deciso di procedere al contrario, spiegando ad alcuni artigiani ciò che avevo in mente: grazie alla loro professionalità avrei potuto risolvere facilmente gli imprevisti direttamente in cantiere. Il volume è stato definito partendo dall’analisi dello stile di vita del cliente e tradotto in modelli. Il modello finale è stato poi digitalizzato e convertito in 3D.

Le coordinate ottenute sono state inserite in una stazione totale – uno strumento per il rilievo topografico – mentre gli artigiani hanno scavato i fori a mano, verificandone la posizione sul sito usando un iPad. In questa fase, la superficie del terreno ha rivelato diverse cromie e granulometrie, fra cui terra rossa, grigia, verde, strati ghiaiosi e pietre. In alcuni punti, era cresciuta l’erba e, in altri, era franata un po’ di terra, proprio come accade in un paesaggio naturale.

Questi cambiamenti sono stati impressi nel calcestruzzo. Una volta collegati i fori, il calcestruzzo è stato versato nello scavo, usato come stampo. Entro l’estate, finiremo di raschiare via la terra attorno alla struttura e le aperture saranno tamponate col vetro in modo da dare forma agli interni. Lo spirito di questo spazio di cemento non è ancora architettura, ma lo diventerà presto.

Alla Biennale di architettura di Venezia del 2008, visitando il padiglione del Giappone, ho avuto un altro incontro sorprendente con i suoi disegni. All’interno della struttura, Ishigami aveva concepito una mostra di disegni realizzati a matita direttamente sulle pareti.

Mentre le esposizioni di architettura hanno spesso una struttura didascalica, il suo approccio sembrava eludere qualsiasi tipo di retorica: aveva scelto di trasferire tutto il suo immaginario direttamente sul muro, svincolandosi così da ogni supporto materiale intermedio. Il risultato era semplicemente bello. I tratti, delicati ed elaborati, illustravano la sua visione e rispecchiavano il suo modo di pensare l’architettura.

Simile a una passerella che si snoda per un chilometro sopra l’acqua, il centro culturale è un esile nastro di larghezza variabile che collega le due sponde di un lago situato nell’area paludosa di Bailuwan.

L’acqua penetra nella struttura, sotto i pannelli di vetro che fungono da pareti esterne per creare un sottile corso interno, trasformando il passaggio in una fine striscia di spiaggia che si estende in lontananza. I visitatori sono invitati a seguire questo percorso coperto delimitato da due rive e che varia in larghezza da cinque a 20 m. Accessibile da entrambi i lati, la struttura può essere interamente percorsa, permettendo ai visitatori di scoprire le diverse aree del centro: gli spazi per il relax, la ristorazione e commerciali.

La sinuosità dell’edificio, la trasparenza delle pareti laterali e la presenza continua dell’acqua definiscono un nuovo paesaggio, in cui elementi costruiti e naturali si compenetrano diventando una cosa sola.

Simile a una passerella che si snoda per un chilometro sopra l’acqua, il centro culturale è un esile nastro di larghezza variabile che collega le due sponde di un lago situato nell’area paludosa di Bailuwan.

L’acqua penetra nella struttura, sotto i pannelli di vetro che fungono da pareti esterne per creare un sottile corso interno, trasformando il passaggio in una fine striscia di spiaggia che si estende in lontananza. I visitatori sono invitati a seguire questo percorso coperto delimitato da due rive e che varia in larghezza da cinque a 20 m. Accessibile da entrambi i lati, la struttura può essere interamente percorsa, permettendo ai visitatori di scoprire le diverse aree del centro: gli spazi per il relax, la ristorazione e commerciali.

La sinuosità dell’edificio, la trasparenza delle pareti laterali e la presenza continua dell’acqua definiscono un nuovo paesaggio, in cui elementi costruiti e naturali si compenetrano diventando una cosa sola.

Ricordo anche la sua mostra “How Small? How Vast? How Architecture Grows” (2010), alla galleria Shiseido di Tokyo, a conferma della mia sensazione che prima o poi avrebbe progettato qualcosa per la Fondation Cartier. Ne avevamo già discusso diverse volte, senza però arrivare al dunque. Nel 2009, per esempio, l’avevo invitato a progettare la mostra della collezione della Fondation Cartier al Grand Palais di Parigi.

Era un intervento ambizioso: aveva messo insieme una grande quantità di lavoro e concepito una scenografia spettacolare per lo spazio del Palais. Enormi pareti di mattoni dovevano essere distribuite su livelli diversi nella parte superiore della navata. Per spostarsi da una stanza all’altra, il visitatore doveva passare attraverso una minuscola porticina. C’era qualcosa di favoloso in questo intervento: pareti cosmiche trasformavano il soffitto del grande ambiente in una volta celeste.

La Cappella della Valle è un tempio ecumenico situato sul fondo di una piccola gola nel paesaggio nello Shandong. Il progetto sfrutta l’aspra conformazione topografica del terreno e sembra emergere dal crepaccio, enfatizzandone la profondità complessiva di circa 20 m.

L’edificio è alto 45 m e ha una larghezza di 1.3 m nella sua parte più stretta. La struttura è formata da due muri di cemento armato dal profilo curvilineo, con uno spessore variabile da 22 a 180 cm. I due elementi corrono uno accanto all’altro a formare uno stretto passaggio in corrispondenza dell’ingresso e si allontanano poi gradualmente per tornare a unirsi racchiudendo l’altare. Poiché lo spazio si allarga con l’avanzare all’interno dell’edificio, l’ingresso è immerso nell’oscurità, mentre l’altare è direttamente esposto alla luce del sole.

Questa sequenza spaziale crea l’impressione che la luce provenga dal profondo della struttura. Sebbene la sua scala monumentale superi radicalmente quella del paesaggio, il nuovo spazio della cappella si presenta come una continuazione delle proporzioni particolari della valle. Nasce così una nuova valle, aperta al vento e alla pioggia.

La Cappella della Valle è un tempio ecumenico situato sul fondo di una piccola gola nel paesaggio nello Shandong. Il progetto sfrutta l’aspra conformazione topografica del terreno e sembra emergere dal crepaccio, enfatizzandone la profondità complessiva di circa 20 m.

L’edificio è alto 45 m e ha una larghezza di 1.3 m nella sua parte più stretta. La struttura è formata da due muri di cemento armato dal profilo curvilineo, con uno spessore variabile da 22 a 180 cm. I due elementi corrono uno accanto all’altro a formare uno stretto passaggio in corrispondenza dell’ingresso e si allontanano poi gradualmente per tornare a unirsi racchiudendo l’altare. Poiché lo spazio si allarga con l’avanzare all’interno dell’edificio, l’ingresso è immerso nell’oscurità, mentre l’altare è direttamente esposto alla luce del sole.

Questa sequenza spaziale crea l’impressione che la luce provenga dal profondo della struttura. Sebbene la sua scala monumentale superi radicalmente quella del paesaggio, il nuovo spazio della cappella si presenta come una continuazione delle proporzioni particolari della valle. Nasce così una nuova valle, aperta al vento e alla pioggia.

La mostra, purtroppo, non è mai stata realizzata, ma in quel frangente Ishigami ha rivelato un aspetto della sua personalità che apprezzo molto: un’ironia pungente che ben si combina al suo approccio creativo aperto. Ogni suo progetto nasce da una ricerca ispiratrice e, nel prendere forma, determina sempre qualcosa di potente.

Quando, nel 2010, gli ho parlato dell’idea di una mostra nell’iconica sede della Fondation Cartier di Jean Nouvel, non lo stavo contattando solo come direttore artistico, ma anche come portavoce dell’edificio, come facilitatore dell’incontro tra un progettista e un’architettura. Ishigami è un grande ammiratore di Nouvel e la Fondation Cartier è uno dei suoi edifici preferiti: questa coincidenza, oltre un intenso sforzo collaborativo, si è concretizzata in una mostra che è riuscita a coinvolgere ogni tipo di pubblico.

Il progetto mira a creare un’architettura che ricorda una foresta, con l’obiettivo di collegare i bambini all’ambiente naturale che li circonda, offrendo loro la possibilità di una didattica all’aperto e riflettendo, al tempo stesso, la loro visione del mondo.

La disposizione degli interni è pianificata il meno possibile per garantire la massima libertà nel gioco e nelle altre attività.

La maggior parte degli ambienti è progettata a misura di bambino, tuttavia la struttura utilizza una gamma di scale per definire spazi diversi: le aule, per esempio, sono pensate alla scala di un utente adulto; alcuni esterni, invece, possono essere usati solo dai bambini; altri punti ancora non sono raggiungibili neanche per i più piccoli, nemmeno strisciando o accovacciandosi.

Queste variazioni così definite ispirano una moltitudine di attività. Una copertura di cemento armato con grandi aperture protegge l’edificio e, abbassandosi in diversi punti, si fonde con il terreno creando ulteriori ambiti per il gioco dei bambini. 

Il tetto è sostenuto da sottili pilastri di acciaio che trasferiscono il carico verticale, mentre le sollecitazioni orizzontali vengono ammortizzate proprio dai punti di contatto con il terreno. Il disegno del tetto è il risultato di una serie di collage, ognuno dei quali raccoglie immagini di animali, piante e illustrazioni di bambini, poi progressivamente stilizzate fino a definire la forma e dei contorni dell’edificio.

Emergendo da un immaginario figurativo non più riconoscibile, l’architettura usa queste sagome lasciando ai bambini la possibilità di interpretarle: abbassandosi verso il terreno, la copertura può, per esempio, suggerire di atterrare su un fiore o scivolare lungo la proboscide di un elefante.

Astratto e concreto, enorme e minuscolo, interno ed esterno si combinano per offrire a ogni bambino la possibilità di dare sfogo alla sua infinita immaginazione, creando così un’architettura fatta interamente di elementi non architettonici: concepita come un paesaggio, è costruita alla scala dei bambini e con la loro peculiare visione del mondo.

Il progetto mira a creare un’architettura che ricorda una foresta, con l’obiettivo di collegare i bambini all’ambiente naturale che li circonda, offrendo loro la possibilità di una didattica all’aperto e riflettendo, al tempo stesso, la loro visione del mondo.

La disposizione degli interni è pianificata il meno possibile per garantire la massima libertà nel gioco e nelle altre attività.

La maggior parte degli ambienti è progettata a misura di bambino, tuttavia la struttura utilizza una gamma di scale per definire spazi diversi: le aule, per esempio, sono pensate alla scala di un utente adulto; alcuni esterni, invece, possono essere usati solo dai bambini; altri punti ancora non sono raggiungibili neanche per i più piccoli, nemmeno strisciando o accovacciandosi.

Queste variazioni così definite ispirano una moltitudine di attività. Una copertura di cemento armato con grandi aperture protegge l’edificio e, abbassandosi in diversi punti, si fonde con il terreno creando ulteriori ambiti per il gioco dei bambini. 

Il tetto è sostenuto da sottili pilastri di acciaio che trasferiscono il carico verticale, mentre le sollecitazioni orizzontali vengono ammortizzate proprio dai punti di contatto con il terreno. Il disegno del tetto è il risultato di una serie di collage, ognuno dei quali raccoglie immagini di animali, piante e illustrazioni di bambini, poi progressivamente stilizzate fino a definire la forma e dei contorni dell’edificio.

Emergendo da un immaginario figurativo non più riconoscibile, l’architettura usa queste sagome lasciando ai bambini la possibilità di interpretarle: abbassandosi verso il terreno, la copertura può, per esempio, suggerire di atterrare su un fiore o scivolare lungo la proboscide di un elefante.

Astratto e concreto, enorme e minuscolo, interno ed esterno si combinano per offrire a ogni bambino la possibilità di dare sfogo alla sua infinita immaginazione, creando così un’architettura fatta interamente di elementi non architettonici: concepita come un paesaggio, è costruita alla scala dei bambini e con la loro peculiare visione del mondo.

Con la personale “Freeing Architecture”, Ishigami ha ampliato la sua ricerca di nuove definizioni di architettura. Osservare lui e la sua squadra creare e assemblare i modelli in loco è stato straordinario: ognuno di essi contribuiva a dare senso al progetto generale. I modelli erano contestualizzati, inseriti in un ambiente popolato da alberi, animali e oggetti, pensati alla stessa scala dei suoi occupanti. La mostra, completata dagli schizzi, ha offerto una moltitudine di scenari, favorendo un’immediata empatia e intimità con la visione dell’autore. L’architetto giapponese ha dimostrato così tutta la sua capacità d’immaginazione al di là dei confini della scala architettonica, con il tocco sottile di uno spirito quasi naïf.

Come artista, Ishigami crea mondi differenti, capaci di reinventare il nostro modo di abitare. Come architetto sensibile, non ha solo liberato l’architettura: credo abbia anche reso più libero il modo di esporla.

Immagine in apertura: Cappella della Valle, Bailuwan, Shandong, Cina, 2016-in corso. Courtesy Junya.Ishigami+Associates

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