Amici di Kamarda -

2022-05-29 02:34:16 By : Mr. RongQiang Woo

Kamarda Friends di Cristiano Iurisci “L’alpinismo è praticamente morto!“ affermava qualche anno fa Roberto Iannilli, il famoso alpinista di Ladispoli che per oltre un trentennio aveva aperto vie sul Gran Sasso. Poi proseguiva:

“È impossibile fare ancora dell’alpinismo sul Gran Sasso, come nuove vie, nuove esplorazioni, se non ritagliarsi angoli di roccia ancora “vergine” tra ragnatele di vie esistenti, o per pochi metri su gradi altissimi oppure rischiare la pelle su pareti brutte, discontinue e pericolose”.

“Forse solo in inverno – proseguiva – magari seguendo la logica del ghiaccio e della neve e non quella della ripetizione di vie estive, poteva esserci ancora qualche margine di avventura e di esplorazione”.

Quelle parole rischiarono di mandare in frantumi un sogno che covavo da tempo, quello di poter ripetere le gesta dei primi esploratori/alpinisti. Non volevo ammetterlo, ma Roberto sembrava aver ragione: il Gran Sasso è un gruppo montuoso tutto sommato piccolo, facilmente raggiungibile e circondato da milioni di abitanti; inoltre, è l’unico in Appennino ad avere caratteristiche dolomitiche. Ovvio quindi che quasi tutti gli alpinisti dell’Italia centrale e meridionale si rivolgessero innanzitutto alle sue rocce. Così, per molti anni accettai le parole di Roberto, dedicandomi alla ripetizione di vie più o meno difficili, senza o quasi possibilità di esplorazione e scoperta.

Ma qualcosa dentro di me non si era arreso; così, nel 2006 osservando la maestosa parete nord del monte Camicia, l’Eiger dell’Appennino, notai sulla sinistra una sezione di parete dove ancora non era salito nessuno; non una porzione di parete, ma di una vera parete a sé stante con tanto di cima, dove non si doveva salire evitando di incrociare altre vie, ma si aveva a disposizione tutta la parete! Contattai due forti alpinisti miei amici, Samuele Mazzolini e Francesco Piacenza, con l’idea di aprirci una via. Così, nel luglio del 2008, noi tre aprimmo Pietre di Luna. Fu una esperienza davvero incredibile. Qualche anno dopo aprendo Paretone Express (2014) sul Paretone del Corno Grande, salimmo su 800 metri di parete dove non aveva scalato mai nessuno! Allora il Gran Sasso aveva ancora parti inesplorate! Era così, e lo confermava lo stesso Iannilli, che nel frattempo proseguiva imperterrito a scovare nuove linee.

Nel 2016 però sembrava davvero che tutto fosse “finito”, che non ci fosse davvero più nulla da esplorare…

Poi, nell’autunno 2017 vidi una foto su facebook che ritraeva un alpinista con una piccozza in primo piano sotto le rocce del Pizzo di Camarda, una cima della catena occidentale del Gran Sasso; rimasi sorpreso e incuriosito: possibile, mi chiedo, che un alpinista praticamente sconosciuto, abbia tracciato qualche tiro su quella parete? Era forse l’ultima grande parete vergine del Gran Sasso! Che coraggio! E poi in solitaria!

Contattai l’autore (Davide Peluzzi) per avere info e relazione; a quel tempo stavo rivedendo le bozze per la guida Passi di V: un volume dedicato alle salite classiche su roccia in Appennino Centrale, edito dalle Edizioni il Lupo. Certamente questa via poteva essere annoverata tra quelle da inserire nella guida, anche perché sembrava facile, Davide la dava di IV. Leggo la relazione e mi riprometto di andarci nella stagione successiva e tentare una ripetizione (era ormai fine ottobre ed era caduta la prima neve). Qualche mese dopo però subisco un grave incidente con frattura scomposta della caviglia. Per poter inserire la via nella guida era necessario che qualcuno la ripetesse (almeno i primi tre tiri aperti da Davide, seppure brevi), per verificare tutte le informazioni che ci aveva dato. Io ero fuori gioco per molti mesi, cercai dei volontari, ma non ne trovai, il Camarda non attraeva gli alpinisti dell’Italia centrale, molto spesso fissati su Corno Grande e Corno Piccolo e sulla loro magnifica roccia.

Nasce il “progetto Camarda” I primi a tentare la salita nel luglio 2018 furono Licio, Fausto e Fabrizio, ma un brutto volo di Licio al secondo tiro, per fortuna senza troppe conseguenze, costrinse gli alpinisti alla rinuncia, e a un rinvio a data da destinarsi. Intanto la guida Passi di V era in fase di stampa; non c’era più tempo per altri tentativi, fu così inserita in stampa la relazione di Davide. Era un’indicazione e un suggerimento ad altri alpinisti di tentare la salita: quelle poche decine di metri saliti da Davide infatti volevano essere un nuovo spunto, uno stimolo a fare un alpinismo diverso. Per conto mio, con la caviglia in fase di lunga e dolorosa guarigione, mi ripromisi che, appena guarito, avrei fatto di tutto per tornarci. E che nessuno sembrava volermi precedere alla fine non mi dispiaceva; anzi, il fatto che probabilmente avrei scalato su rocce vergini dove aprire una via del tutto nuova, la prima su quella vasta parete, mi dava forza durante il lungo periodo di riabilitazione della caviglia.

C’era però un dubbio: se nessuno aveva mai pensato di salire quella parete forse un motivo c’era, e forse confermava quanto asseriva Iannilli, ovvero che l’alpinismo esplorativo sul Gran Sasso era possibile ormai solo su pareti marginali, brutte o, peggio, pericolose.

Come appariva essere il Pizzo di Camarda (Camarda è un minuscolo borghetto lungo la valle del torrente Riale che nasce ai piedi del versante aquilano Gran Sasso), una grande parete la cui roccia non appariva troppo solida. Perplessità confermate dal fatto che, fino ad allora, nella letteratura alpinistica non c’era traccia scritta o documenti di una via su quella parete. Una grande e impressionante muraglia solcata da un’ampia fascia di rocce chiare, un nastro grigio-argento che, come un ricamo, sale tra strati di rocce rosse, gialle e di ripida erba. Di dubbi sulla reale fattibilità di quella salita ne avevo tanti: la reale condizione fisica della mia caviglia, la difficoltà effettiva della via, le reali condizioni della roccia; inoltre, sarebbe stato sicuramente non facile trovare un compagno che mi accompagnasse in quell’avventura, un progetto che alla gran massa degli alpinisti locali legati, come detto sopra, alla splendida roccia dei due Corni, sarebbe stato certamente deriso, bocciato o addirittura ritenuto pericoloso o suicida. Alla fine decisi di non farne parola con nessuno, se non con Stefano Supplizi, il mio usuale compagno di cordata; il quale, con mia grande sorpresa, accettò l’invito. Sinceramente mi aspettavo remore, o dubbi da parte sua: forse non conosceva appieno la parete; forse non ero stato in grado chiarire bene il tipo di difficoltà.

Stefano però sembrava abbastanza deciso, e avrebbe voluto provare, anche se la parete sembrava strana, complessa e senza via di fuga evidenti. La mia caviglia però stava avendo una convalescenza molto lenta, così che fu solo nel settembre 2019 che il progetto prese vita. A Stefano e al sottoscritto si aggiunsero, in quel 1° tentativo, Alberto Osti Guerrazzi (l’editore di Passi di V) e Domenico Mimmo Perri (eccellente alpinista con esperienza himalayana e amico in comune).

Il primo tentativo avvenne quindi all’inizio dell’autunno, il 29 settembre 2019. La mia lunga convalescenza mi aveva permesso di avere più foto e da varie angolazioni, che mi servirono per studiare e capire quale fosse la migliore linea di salita. Le giornate si andavano accorciando, e quella volta riuscimmo a salire 4 tiri, purtroppo i due tiri superiori erano fuori logica e ci portarono fuori via: ma e non c’era tempo per intervenire, decidemmo di scendere in doppia e rimandammo un secondo tentativo all’anno successivo.

Ma come mai, nonostante mesi di studi e di analisi delle foto, eravamo finiti fuori via?

Vista la mia condizione di quasi invalido, non fu semplice organizzare quel primo tentativo! Ci dovemmo suddividere i compiti come in una piccola spedizione: Stefano, che era il più in forma, avrebbe “tirato” la via, cioè avrebbe scalato da primo di cordata la linea che avevo immaginato essere la migliore. Il compito di Alberto e Mimmo era invece quello di supporto logistico, praticamente avrebbero fatto da portatori: 15 chiodi, cordoni, maglie rapide, insomma, tutto il necessario per salire e attrezzare la via, compreso una terza mezza corda per me, che ero il “quarto” di cordata. Il mio compito era quello di pulire, disgaggiare, sistemare il posizionamento chiodi, cordoni e soste in modo da avere un rientro sicuro senza intoppi, considerato che la roccia non era sempre buona e la linea della via appariva “storta”.

Stefano affrontò tranquillo il primo tiro: era in gran forma e saliva sicuro, seguito da Mimmo e Alberto. Quando fu il mio turno, Stefano iniziò a scalare il secondo tiro. Insomma Stefano era in vantaggio di un tiro rispetto a me; quindi mentre io seguivo lentamente per disgaggiare alcune lame instabili incredibilmente salite da Stefano senza far cadere nulla sui compagni di cordata, lo stesso Stefano si accingeva ad attaccare il terzo tiro. Purtroppo si sbagliava: seguiva la logica e non la traccia suggerita nella stampa. Praticamente era andato dritto, e poco oltre un facile muretto, si era ritrovato presto su ripidi pendii erbosi. Stefano non dette troppo peso alla faccenda, e continuò a salire utilizzando gli affioramenti di buona roccia in modo da sistemare le protezioni, principalmente con i chiodi. Solo quando anch’io arrivai alla seconda sosta mi accorsi dell’errore, ma ormai era tardi perché nel frattempo Stefano era già impegnato a salire il quarto tiro, su roccette, brevi placche ed erba ripida. Dopo quel tiro, di comune accordo si decise che non c’era tempo per fare correzioni; decidemmo di rientrare.

L’estate successiva Stefano ed io decidemmo per un tentativo (il 3°) ai primi di luglio 2020: con grande maestria Stefano riuscì ad aprire il 3° e difficile tiro, che valutò V+. Ma la forma fisica di entrambi non era ideale e senza i portatori eravamo già stanchi dopo i miseri tre tiri iniziali! Con il tempo che minacciava brutto decidemmo di calarci in doppia.

Ritornammo in agosto per il 4° tentativo, e stavolta si era unito a noi Nando di Febo, un amico di Stefano il cui compito era quello di salire i primi tre tiri in modo da agevolare Stefano per l’apertura dei tiri successivi; inoltre, doveva portare una corda aggiuntiva, che avremmo lasciato in parete visto che la via era risultata un po’ contorta.

Anche questa volta però, Stefano procedeva fuori via, capivamo solo che era un tiro difficile dalla lentezza e dagli sbuffi di Stefano. Dopo quasi un’ora Stefano urlava “molla tutto”: Stefano era in sosta! Bene; e invece, appena superato lo spigolo poco sopra la sosta capii che Stefano era passato troppo a destra. La linea da lui salita apparentemente era corretta in quanto era logica, lineare, ma il nastro di calcare buono che avremmo dovuto seguire piegava a sinistra, non altrove. Giunto sotto al passo chiave del tiro capivo che ci saremmo trovati completamente fuori via.

“Stefano non recuperarmi, dammi corda che provo a salire a sinistra! “gli urlai. Iniziai così un lungo traverso che mi porterà ad aprire la parte superiore di quello che sarà poi il quarto tiro ufficiale. Suggerii a Stefano di calare Nando fino al traverso in modo da portarmi la corda fissa, visto che da dove ero io risultava quasi impossibile scendere alla base della parete. Nelle mie condizioni (con la caviglia invalida), fu l’unico tiro da me aperto, ma ne sono comunque fiero perché questa correzione ha permesso di poter proseguire lungo il “nastro” di roccia buona.

Seppure fosse ancora presto, il cielo minacciava pioggia come da previsione; il maltempo arrivò puntuale, non appena giungemmo alla base dalla parete si scatenò un temporale violento, riuscimmo ad arrivare al rifugio Fioretti zuppi fino alle mutande mentre e fiumi d’acqua scorrevano sulla sterrata. Domenico Picco, il gestore del rifugio, ci raccomandò di ripartire velocemente prima che i solchi sulla sterrata da guadare diventassero pericolosi.

Nel 4° tentativo (agosto 2020) Mimmo prese il posto di Nando, impegnato fino al collo con il lavoro. Quella notte però l’uomo propone e Dio dispone. Alle 23 Stefano mi comunicava che stava accompagnando la moglie al pronto soccorso. Cercai di contattare Mimmo per annullare l’uscita ma non rispose: credo fosse già a dormire. Probabilmente si sarebbe svegliato alle 5 del mattino per arrivare in tempo all’appuntamento sulla Diga della Provvidenza. Mi toccava mettere la sveglia per impedirgli di partire inutilmente. Alle 2 del mattino Stefano era ancora al pronto soccorso e con un messaggio mi fece capire che aveva intenzione di venire visto che ha già pronto tutto in macchina, ma poco dopo persi del tutto i contatti con lui. Alle tre mi addormentai e due ore dopo provai a richiamare i due. Nulla. Stefano e Mimmo non risposero ai miei messaggi e mi vidi costretto a partire perché conoscendo Mimmo lui era già in viaggio da Roma. Ore 7, sono ormai a meno di mezz’ora dalla diga, finalmente Mimmo rispose, ma ormai non aveva più senso tornare. Sempre a causa della mia invalidità e del timore di farmi di nuovo male, gli proposi di “tirare” lui la via.

“Allora Mimmo, vai tu?” gli chiedo appena scendo dalla macchina. E lui dice, “Ok, ci proviamo! “.

Io portai il trapano per sistemare soste e recuperare qualche chiodo. Dopo tre tiri però Mimmo era stanco (la via per il nostro livello non è proprio facile!) e non se la sentiva di proseguire. Mi feci coraggio e provai a salire nuovamente quel quarto tiro che tanto mi aveva fatto penare. Il problema è che ora lo dovevo scalare dall’inizio, non da metà come fatto la scorsa volta. Avere il trapano mi dava fiducia, iniziai a traversare la placca che corre parallela a quella di apertura, ma 10 m più in basso. La placca era però priva di fessure e il trapano mi aiutò sistemando due fix. Arrivai poi al punto debole del tiro, che mi avrebbe dovuto permette di rimontare sulla cengia superiore; osservai la fessura, capii che non era facile e lasciai il trapano alla prima protezione per essere più leggero. Iniziai a salire quei 10 metri con il cuore in gola per la paura di cadere e in qualche modo raggiunsi la placca superiore, fissai un altro chiodo e provai a proseguire; ma le protezioni messe in maniera sicuramente sbagliata per l’ansia mi creavano attrito: sentivo tutto il peso della corda raddoppiarsi e perfino triplicarsi. Mi diressi verso il chiodo che due settimane prima avevo lasciato poco oltre, metro dopo metro la corda era diventata piombo. Non riuscii a salire oltre e non rimase che inventarsi una sosta di fortuna e far salire Mimmo qui per affrontare i 15 metri finali del tiro. Arrivai in sosta esausto.

Mimmo mi raggiunse su quella sosta provvisoria; gli indicai dove avrebbe proseguito la via, lui partì, provando a salire qualche metro il camino a destra; ma la via, seppur logica, era segnata da lame pericolanti, incastrate e di dubbia tenuta. Saliti 10/12 metri Mimmo si affacciò al diedro/camino successivo. La continuità e la verticalità lo aveva spaventato e la qualità della roccia non lo convinceva, tornò sui suoi passi fino all’ultimo chiodo, che rinforzò per tornare giù.

“Cristià, io torno giù, qua è davvero troppo rischioso e non ho più voglia di stare in questo luogo poco rassicurante, e poi ‘sta nebbia non mi convince“.

“Va bene Mimmo, di lì non si passa, scatta una foto di quello che si vede e poi raggiungimi in sosta”.

Osservate le foto sul cellulare capii che l’unica alternativa possibile era a sinistra, a oltrepassare il colatoio e salire il camino successivo. Approfittai del trapano ancora carico e aggiunsi uno spit utile per il prossimo tentativo.

Seppur lentamente il progetto stava prendendo corpo, ma rimaneva ancora l’incognita dell’uscita dalla parete: praticamente non era ancora chiaro il da farsi una volta terminato il “nastro” di roccia buona; finita quella appariva quasi impossibile proseguire per l’erba e la roccia infida per oltre 150 metri di dislivello! E scendere in doppia da lì lo sarà altrettanto vista la roccia rotta e le cenge ricoperte di ogni genere pietre in bilico. L’unica possibilità era procedere attraverso la cengia erbosa sulla sinistra.

L’idea iniziale era di raggiungere la cengia erbosa sistemando delle fisse, ma visto come stavano andando le cose, e le elevate difficoltà, non avremmo mai avuto tanto tempo e forza da caricarci il materiale necessario per installare lassù 100 metri di corda fissa.

Non rimaneva che calarsi dall’alto, raggiunge la fine del “nastro” di roccia buona e provare a sistemare le doppie.

Qui entrava in gioco il sesto componente: Mauro Pierantoni.

Mauro accetta ed è stimolato dall’idea di esplorare questa grande parete; partiamo per il 5° tentativo (settembre 2020), questo sarà dall’alto. Ma la paura di calarsi è tanta, la linea di salita/discesa non è ancora ben chiara e il rischio di sbagliare elevato. Allora coinvolgo nuovamente Alberto nel progetto: il suo compito sarebbe stato quello di “riposare” alla base della parete, e controllare con il binocolo che Mauro si stesse calando lungo la via ipotizzata. La sua presenza si rivelò utile se non fondamentale perché una volta raggiunta la vetta, quando io e Mauro cominciammo a scendere i ripidissimi pendii sommitali, dal nostro punto di vista non ci appariva nient’altro che erba ripida che spariva nel vuoto senza punti di riferimento. Dopo circa 150 metri di discesa, andare oltre senza corda sarebbe risultato impossibile, fummo costretti a montare una sosta e sondare metro per metro lame, spuntoni e rocce, quasi a piombo nel vuoto a trovarne una roccia buona dove piantare due chiodi e assicurare le nostre vite.

Dopo una cinquantina di metri, Alberto mi chiama e mi comunica che sono troppo a destra; provo a traversare ma dopo una decina di metri devo fermarmi: sopra di me osservo pericolose lame pronte a cadere se insisto a traversare. Sistemo dunque due chiodi e faccio scendere Mauro.

“Mauro, guarda a sinistra, quella è la cima del “nastro” di roccia buona, cioè dove dovrebbe finire la via. Non sono potuto arrivare fin la, questo compito lo lascio a te”.

Poi aggiungo: “Mauro, se ti leghi a un capo, senza sfilare le corde, ti assicuro mentre provi a traversare a sinistra verso la cima del “nastro”.

Il traverso è esposto e strapiombante con rocce rotte fatte da tegole a strati orizzontali pronti a cadere. Mauro riesce a passare e dice che non è difficile; poi monta una sosta in cima, ad una ventina di metri da me. Inizio poi a sfilare le corde fino a che la vedo volare nel vuoto e con lei ogni ponte per tornare indietro.

Alberto intanto ci conferma che siamo esattamente dove avremmo dovuto essere e questo ci conforta perché continua ad essere tutto poco chiaro dal nostro punto di vista. Iniziata la calata però riconosco la larga cengia erbosa e mi faccio tranquillo. Inizio poi la traversata sull’erba e, fatti una cinquantina di metri contatto Alberto per capire se sono al punto che avevo segnato la seconda calata in modo da evitare strapiombi di roccia marcia. Ricevuto l’OK, monto la sosta e effettuo la seconda doppia che fila bene, così pure la terza e l’ultima che ci riporta alla base della parete. La tensione ora si allenta e sappiamo che da questa parete è possibile scendere e anche in maniera piuttosto semplice.

Due settimane dopo (6° tentativo, ottobre 2020) è di nuovo Mauro con me accompagnati da Stefano e Nando.

La via è sempre più pulita e sicura e la salita fila liscia fino al quarto tiro e allo spit messo per iniziare il traverso che porta al canale/camino del quinto tiro.

Nando parte e con apparente facilità sale fino a sotto i grandi tetti dove si poteva immaginare una sosta.

– Cristiano!! Puoi venire a controllare la sosta? – urla Nando. – Ma no! Perché non la consideri buona? – replico io! – No, beh, forse sì, ma non mi fido.

Tocca che qualcuno di noi lo raggiunga. Guardo Stefano che mi dice che è stanco, poi guardo Mauro che lassù non sale.

Appare chiaro che non è stanchezza la loro, ma solo il timore dell’ambiente poco rassicurante che ci circonda. Ammetto che pure io ne sono intimorito, nonostante sia la terza volta che arrivo qui.

– Vabbè, ho capito! – concludo piuttosto amareggiato. – Vado io, vado io! – Nando hai con te un altro chiodo? – gli chiedo. – Sì. – Allora martella quello in una fessura accanto e poi passaci la corda rossa.

Dalla sosta poi tiro al massimo la corda rossa e provo a testare il chiodo appena messo. Pare regga.

– Nando! Quel chiodo regge alla grande! Uniscilo alla sosta e recuperami che arrivo!

Già dai primi metri capisco che, sebbene il tiro non superi il VI, è comunque quasi tutto su roccia molto instabile e pericolosa, ad ogni mio passaggio non riesco a salire senza prima liberare la roccia da lame incastrate e a evitare massi che potrebbero cadermi addosso.

– Nando ma come cavolo hai fatto! Tiro pazzesco e pericoloso! Hai rischiato! – Ma no Cristiano, ero tranquillo! Bastava tenersi fuori. È solo che questa sosta mi fa paura! Io non mi fido dei miei chiodi, ecco tutto…

Mentre mi calo faccio precipitare giù quello che avevo evitato, compreso una lama che pesava forse trenta chili. Il suo tonfo poi echeggia nell’ampia valle. Raggiungo gli altri e iniziamo la lunga discesa utilizzando la corda fissa.

L’estate 2020 termina con questo tentativo. Ora non rimane che il rebus del sesto tiro, che visto da vicino appare più duro del previsto, e il problema di come raggiungere la sosta montata il mese scorso.

A gennaio 2021 cado con gli sci e mi mettono una seconda protesi: fino a maggio sarò convalescente. Nando a febbraio si rompe il crociato, non sarà dei nostri almeno fino a tutto agosto. A inizio giugno inizio a riprendere la forma ma dopo un paio di uscite con Stefano che promettono bene e mi fanno sperare di tornare presto a mettere le mani famoso sesto tiro. Poi però il mio amico parte per le Alpi a scalare il Monte Bianco. Purtroppo il fallimento di quella scalata, unito al tanto lavoro arretrato, fanno sì che Stefano abbia un calo di motivazioni così forte da portarlo addirittura ad abbandonare il mondo del verticale. Intanto Mimmo ha chiaramente detto che il sesto tiro è troppo per lui. Mauro idem. Alberto poi ha preso il CoViD-19 ad aprile e non si è ripreso.

Rimango solo io, con la caviglia e una tibia con protesi e con una forma tutt’altro che buona. Il progetto sembra davvero finito, a meno di non coinvolgere Gianluca Nervegna e Luca Gasparini, con i quali avevamo tentato nel gennaio 2021 l’invernale della Nord del Camarda; tentativo senza successo di salire sfruttando paretine e fasce erbose; sembrava fattibile, ma il maltempo ci ha ricacciato subito al primo tiro.

– Ciao Luca, come va? Che ne dici di andare al Camarda? – A Cristià, non posso, dopo mesi di immobilità causa covid, ora siamo sommersi da lavoro e sono fuori forma.

Rimane Gianluca, al quale propongo di tornare dall’alto per sistemare le soste di calata e di spostare più in basso la sosta di fine via in quanto dalle nuove foto a disposizione, appare che il “nastro” di roccia buona si interrompa prima.

A fine giugno 2021 Gianluca ed io ci troviamo sui temibili pendii erbosi dell’edificio sommitale del Camarda in cerca della sosta messa l’anno precedente. Alla prima calata raccomando a Gianluca di tenersi più a sinistra e di scendere più a valle fino al punto che gli ho mostrato nella foto, che portiamo stampata appresso e che avevamo a lungo studiato la sera prima. Gianluca però va oltre, sparisce sia dalla vista che dall’udito. Sento qualcosa solo se urlo forte a squarciagola. Il telefono non prende. Ad un certo punto una calma di vento mi fa udire che sta su un prato in piedi.

Quelle informazioni sono sufficienti per farmi capire che non è dove doveva essere ma la corda molle mi fa capire che non è appeso e che posso calarmi quel tanto per comunicare.

– Gianlcuaaa! Mi senti? – Sì, sopra di me c’è una specie di grotta e grossi strapiombi… – Ok, ho capito dove sei, non ti posso raggiungere ché sei sceso troppo e da dove sei tu non potremmo mai e poi mai raggiunger le doppie! Devi risalire! – Cristià, ho strapiombi grossi! – E a sinistra? – Uno sperone! – Ok, ok, riusciresti a scalarlo quello? – Non lo so, ma la corda mi butta di qua e se cado non so come va a finire.

Io mi trovo appeso su cengia erbosa circa 35 metri più in alto di Gianluca. Ho 1 solo chiodo appresso (il resto lo ha lui) e dove sono è solo erba e non ho alcuna possibilità di utilizzare quell’unico chiodo per montare una sosta. Scendo qualche metro verso sinistra verso delle rocce alla ricerca di una buona fessura dove infilare quell’unico chiodo.

– Luca, ho fatto una specie di sosta, ora sto comodo. Prova ad allentare una sola delle due corde che provo a scavallare lo sperone e a recuperarti da lì, magari è scalabile.

E così fu: Gianluca sale e lo vedo spuntare dal baratro. Ora gli indico di dirigersi altri 10 metri a sinistra e di usare il trapano per montare la sosta alla base della placconata. Perché era lì che avevamo studiato di fare la sosta!

– Finalmente ora possiamo riprendere il sistema di calate montate lo scorso anno e tornare giù! Senti, ma il tiro salito come è? – Buono, anzi, carino, ma non facile. – Quindi potrebbe essere l’ipotetico ultimo tiro della via? Giusto? – Boh – risponde Gianluca – non ho capito un tubo dalla grotta dove ero. – Allora ti faccio scendere un’altra volta e risali con il trapano e metti qualche spit in modo da attrezzare il tiro. Il tuo errore potrebbe rivelarsi fondamentale. Non è eticamente il massimo, ma il caso ha voluto così e noi ne approfittiamo.

Tornato giù scatta delle foto più a valle e capire da dove sbucherebbe il famoso sesto tiro.

Luglio passa e così pare passare anche agosto perché la maledizione della parete si abbatte di nuovo su uno dei componenti: Gianluca per un po’ deve astenersi dagli sforzi.

Sembra tutto da rimandare di nuovo di un anno quando una telefonata casuale a Guglielmo Memmo Fornari rimette in gioco tutto. Al cenno di questo progetto mi aspettavo un no secco e delle solite motivazioni come è pericoloso, è piena d’erba, con tante pareti in giro che vai a fare lassù, ma perché proprio lì!

– Perché è lì – ero pronto a rispondere all’ultima delle sue obiezioni.

E invece no. Non fa obiezione e dice che questo si chiama alpinismo esplorativo e lui vuole esplorare l’ultima grande parete del Gran Sasso.

La mia convalescenza è stata buona, seppur con fatica e dolore mi sento in grado di trasportare corde, trapano e spit alla base della parete; così settimane dopo siamo sotto per l’attacco finale (7° tentativo, agosto 2021). La scalata fila liscia e con un super Memmo che arriva alla 5a sosta prima del previsto. Quando lo raggiungo gli propongo di modificare la parete finale per attaccare il sesto tiro più direttamente e logicamente. Scalo in traverso per 10m e monto la nuova sosta.

– Ora è tutto per te Memmo: roccia vergine dove disegnare la tua linea.

Memmo vince quel tiro con non poche difficoltà: siamo sotto un enorme tetto che protegge dalle intemperie e quindi la roccia si trova esser ricoperta di un fastidioso strato di licheni. Ma con un poco di esperienze e di artificiale ne esce fuori. Appena arrivo in sosta mi fa:

– A Cristià e mo’? Qua non se sale, che facciamo, scennemo (cioè scendiamo)? – Memmo, sono quasi le 18, tornare indietro è davvero complesso, e potrebbe essere peggio che proseguire… – Sono d’accordo, ma qui è tutto rotto! ‘Ndò vai? – Dammi corda che ho capito dove siamo.

Traverso 15 metri di macerie e poi attacco il “dado” (così l’avevo chiamato quella strana paretina scovata dalle foto). Se tanto mi dà tanto, superato quello dovrei vedere la sosta che lasciammo alla base dell’ottavo tiro. E infatti così è stato. Mi sentivo libero, ora ogni dubbio era frugato ed ero contento, quasi commosso. Memmo si “mangia” il tiro successivo e mi comunica che è alla sosta di calata!

Quando lo raggiungo però non rimango tanto tempo e congratularmi o altro. Abbiamo poco più di un’ora di luce e quattro doppie da fare!

Un autoscatto alla base e poi giù con le lampade frontali fino a che il cellulare prende ad avvisare mogli e compagne che avremmo fatto tardi, molto tardi per l’ennesima volta.

Il viaggio di ritorno, lui verso Roma e io verso Lanciano, è stato tutto un telefonare agli amici del Camarda (da cui il nome della via, Kamarda Friends) che la via era conclusa.

E che non vedevo l’ora di rifarla assieme l’anno prossimo per rivivere assieme sogni, gioie, sorrisi, sconfitte, errori e avventure passate assieme.

Dati tecnici Gruppo del Gran Sasso, Appennini, Abruzzo Pizzo di Camarda 2332 m, parete nord-est Kamarda Friends Cristiano Iurisci, Stefano Supplizi, Domenico Perri, Alberto Osti Guerrazzi, Nando Di Febo, Guglielmo Fornari, 2019-2021 260 m dislivello, 300 m sviluppo, ED-, V e VI, un pass. VII-/A0

Roccia mediamente da discreta a buona, localmente anche ottima ma con tratti mediocri (specie sul molto facile).

Via per cordate con esperienza e con un buon livello tecnico. Dopo il 5° tiro è quasi impossibile scendere dalla parete.

Materiale. Classico da roccia con 2 mezze corde da 60 m, friend medi, dadi, cordini, 3-5 chiodi. Chiodatura mista a chiodi e spit, specie sulle difficoltà. Tutte le soste sono attrezzate.

Accesso. Lago della Provvidenza (TE), 1060 m, località raggiungibile dalla SS80 che collega Teramo a L’Aquila con una deviazione (indicazioni Diga della Provvidenza). Attraversare la diga e proseguire per sterrata piuttosto dissestata, specie dopo forti temporali, ma in genere percorribile da automobili alte (consigliato suv o fuoristrada), fino alla staccionata a quota 1470 m dove si parcheggia poco prima del termine del bosco e di un divieto d’accesso. A piedi raggiungere il vicino Rif. Fioretti (1500 m, 10’), continuare sulla sterrata lungo la meravigliosa valle in direzione dello stazzo delle Solagne (1710 m). Prima dello stazzo deviare a destra seguendo alcune tracce fino a trovarsi di fronte alla parete (1 h). Risalire faticosamente i pendii erbosi e sassosi che conducono alla sua base (2000 m); l’attacco si trova presso una fascia rocciosa grigia e compatta a destra della quale corrono altre fasce rocciose rosse. 1.30 h.

Relazione L1: scalare un’evidente placca fessurata (roccia ottima, ch. con cordino alla base) per 10 m (IV+, friend), quindi piegare a sinistra verso lo spigolo e superarlo (V, spit) uscendo (ch.) su ripiano erboso. Traversare orizzontalmente per 10 m (terra) verso lo spigolo che prosegue oltre. Seguire le protezioni (cordoni, chiodi, spit, 15 m V-/V continuo, passo V+) fino a quando lo spigolo si abbatte. Sosta su 2 ch. con anello e cordone, 43 m;

L2: non salire sul terrazzo erboso ma traversare 5 m a destra su rocce (IV) e raggiungere il chiodo con codone appena oltre (non visibile dalla sosta). Proseguire dritti (IV+) fino a una placca liscia con spit. Salire in diagonale a sinistra in direzione di un evidente strapiombo (V, ch.) superabile un poco sulla destra utilizzando lame all’apparenza rotte. Un ch. a sinistra permette di superare lo strapiombo (VI-) con relativa tranquillità. A monte dello strapiombo proseguire sfruttando la placca di sinistra con 2 ch. vicini, utilizzando le lame solo in appoggio. Successivamente lasciare il diedro per attaccare la placca a sinistra (1 ch., 1 spit, passo V+) e tornare nuovamente sullo spigolo. Con percorso logico continuare fino alla sosta (V-, poi III+, 1 ch.), sosta su spit e chiodo con maglia rapida, 37 m;

L3: traversare a sinistra per 8 m fino a osservare una liscia placca con ch. e cordino. Scendere nel canale appena oltre (IV+), traversare (cordone su spuntone a destra) in direzione di un diedro-camino. Salire fino al chiodo (IV+) quindi traversare a sinistra (passo VI-) per entrare in un secondo diedro-camino. Risalirlo per 15 m con difficoltà continue (V+/VI) fino alla sosta su 2 ch. con cordone, 40 m;

L4: non è possibile osservare oltre lo spigolo a sinistra, per cui traversare a sinistra e abbracciare uno spuntone che si sfrutta per traversare (esposto) tenendosi bassi con i piedi (IV+). Oltrepassato lo spigolo salire su rocce mediocri ma facili per 5 m fino all’orlo di una liscia placca. Attraversarla verso sinistra fino al termine (10 m, 3 spit, V-). Traversare brevemente a sinistra (terriccio) e scalare una fessura con cordone su ch. (allungare con cordino), uscire in placca sulla destra (8 m, VI, 1 ch. e 1 spit). Proseguire per placche erbose (IV) fino a un evidente cordone (ch.); salire per rocce mediocri fino al successivo ch. con cordone sulla destra (IV+), salire ancora a destra (V) e uscire su pulpito e alla vicina sosta su 2 ch. con cordone, 45 m;

L5: traversare 8 m a sinistra (spit) verso un colatoio tenendosi il più basso possibile. Salire su roccia mediocre in direzione del secondo camino (IV) fino a 1 ch. Proseguire con difficoltà continua su roccia da discreta a buona per 15 m (2 ch., friend, V passo V+/VI-). Uscire su bella placca a sinistra verso uno spit (V+/VI-) e in breve ancora a sinistra (V-, friend) alla sosta su chiodo e spit, 40 m;

L6: salire verticalmente (8 m, VI, 3 spit) utilizzando le prese sottostanti il grosso tetto in quanto la placca è lichenosa. Poi è possibile sia traversare a pendolo verso sinistra a 1 ch. (VII- azzerabile, poi V), sia salire ancora (possibile ch., V) e piegare a sinistra poco più a monte (possibile chiodo) per raggiungere il filo dello spigolo. Più facilmente raggiungere la sosta con ch. e spit, 23 m;

L7: traversare orizzontalmente e in leggera discesa per cengia terrosa utilizzando gli spuntoni (ch. a metà) fino alla base di un evidente camino (15 m, III-). Scalare il camino su roccia buona e uscirne a destra (7 m, passo IV+). Ora ci sono due possibilità: affrontare la placca a monte (8 m, VI, poi V) fino a 1 ch. a lama e traversare un poco in discesa su pendio terroso/erboso fino all’evidente sosta sulla parete di sinistra; oppure, scalato il camino, traversare a sinistra in direzione di un ginepro. Per gradoni di rocce rotte con erba (12 m) guadagnare la base del pilastro a monte. Sosta su 2 ch. con cordone, 45 m;

L8: scalare il diedro-camino a sinistra della sosta fino a 1 spit (8 m, V+, passo VI+). Proseguire lungo un pilastro fino al suo termine (spit, V). Raggiungere la placca di fronte rinviando con difficoltà 1 ch. sfruttando una presa sulla sinistra. Risalire la placca uscendone sulla sinistra. Proseguire per placche su ottima roccia (2 spit, V+/VI) fino al loro termine. Traversare su placca con erba in leggera discesa fino alla catena di sosta che si trova 10 m a sinistra, 35 m.

Discesa Utilizzando una sola mezza corda calarsi prima per pendio erboso, poi rocce mediocri che si fanno progressivamente più ripide. Ancora 10 m e si raggiunge il bordo destro di un’enorme cengia erbosa assicurandosi su ch. con cordone appena a sinistra. Traversare a piedi sotto la parete fino a una zona con pietre appoggiate. Scendere per queste qualche metro, girare l’angolo e proseguire per larga cengia erbosa fino al una sosta con cordone e ch. Con una calata di 40 m scendere prima su erba, poi per canale e parete rocciosa; alla base della parete scendere più decisamente a sinistra (faccia a monte) fino alla sosta su 3 ch. e cordone. Da lì calarsi dritti per 20 m lungo una parete, alla sua base calarsi ancora per 15 m in un largo impluvio, poi deviare a sinistra (faccia a monte) in modo da arrivare alla sosta attrezzata poco oltre un dosso (in totale 55 m di calata). Una quarta calata facile (30 m) conduce alla base della parete. Traversare (tracce) su scomodo ghiaione fino a tornare all’attacco della via (10’). Tempo sola via: 6-9 h, totale: 9-12 h.

Arcangelo Paolucci says: 26 Novembre 2021 alle 15:13 …..avevo progettato una salita sulla nord del Camarda nel 1967…. mi sembrava che fosse stata facile un’ uscita in vetta, magari aiutandosi con i ramponi sui pendii erbosi,  senza rischiare calate in doppia…. certo con i mezzi tecnici attuali ( spit, corde, moschettoni superleggeri …e altro ) è meno rischioso scendere con calate in doppia.  Bravissimi !! Vera e bella avventura !

Wow…1967….che linea avevi in mente?

…..avevo progettato una salita sulla nord del Camarda nel 1967…. mi sembrava che fosse stata facile un’ uscita in vetta, magari aiutandosi con i ramponi sui pendii erbosi,  senza rischiare calate in doppia…. certo con i mezzi tecnici attuali ( spit, corde, moschettoni superleggeri …e altro ) è meno rischioso scendere con calate in doppia.  Bravissimi !! Vera e bella avventura !!

Non si scende alle pozze perché non si tocca la vetta… 

Per il ritorno perché non è possibile scendere sulla forcella Malecoste e da lì scendere a Le Pozze  ?

RINGRAZIARE LA NATURA. La via segue un affioramento calcareo compatto inclinato di cui ne affiora in superficie la testata. A quando risale? Ho provato a vedere la carta geologica: di seguito il link del foglio Gran Sasso d’Italia: https://www.isprambiente.gov.it/Media/carg/349_GRANSASSO/Foglio.html Il monte Camarda dovrebbe essere poco a destra del Monte Ienca, individuabile sulla carta perchè c’è il toponimo facilmente leggibile, attraverso il quale passa una delle sezioni geologiche riportate nella parte bassa del foglio (è la riga blu sulla pianta). Si legge (male) un toponimo Pizzo (o Passo) di Camarda. In questa zona si trovano le sigle SAA1a e SAA3a. Scaglia rossa, fine del cretacico, 65-70 milioni di anni fa (maastrichiano) all’incirca poco prima dell’estinzione di massa K-T dovuta a meteorite nel golfo del Messico. https://it.wikipedia.org/wiki/Maastrichtiano Bisognerebbe farsi confermare da un geologo ….. ! Ad ogni modo ringraziamo la natura ….. ! MS

Molto tempo addietro portai  un amico di fuori  ad arrampicare in una nostra falesia ricavata in un antro roccioso non troppo…. bello a vedersi  Eravamo orgogliosi del posto che anche se poco appariscente offriva un tipo di roccia unica ,solida e difficile…\ Per scalare in un posto così ci vuole una gran passione\ disse , deludendomi un bel po’..😂  Ecco  i 7 tentativi su questa strana parete mi fanno dire che ci vuole una gran passione  e mi riportano alla mente la cosa…. Complimenti per la scoperta la perseveranza e la riuscita !

Rispondo a benassi, ha ragione, ci sono le apuane e altre piccole realtà. Ne prendo atto. Grazie. 

Una bellissima storia di amicizia e di alpinismo!

Caspiterina nessuno mi ha avvisato , neanche il tempo di godersi la pensione.  Lo dicevo io che troppe infiltrazioni fan più male che bene.

di sicuro poi ci sono invernali, solitarie e solitarie invernali ancora da fare. Oltre a qualche nuova possibilità da aprire per chi ha occhi.   Quindi hai voglia te di alpinismo vivo.

Roberto Iannilli era un esploratore a cui piaceva cercare e trovare terreno vergine dove aprire vie nuove. Infatti al Gran Sasso ha aperto una quantità enorme di vie. Effettivamente  al Gran Sasso, ma non solo, ci sono settori dove  le ragnatele di itinerari  con intrecci di vie o la estrema vicinanza di linee  non scherzano. Per lui, forse,  aprire vie nuove era la massima espressione dell’alpinismo. Da qui forse l’origine di questa perentorea affermazione di Iannilli.  Per l’autore:

il Gran Sasso è un gruppo montuoso tutto sommato piccolo, facilmente raggiungibile e circondato da milioni di abitanti; inoltre, è l’unico in Appennino ad avere caratteristiche dolomitiche.

Dire che è l’unico in Appennino è un’affermazione sbagliata, visto che le Apuane sono in Appennino e la loro morfologia non è certo rotondeggiante.  

““L’alpinismo è praticamente morto!“ affermava qualche anno fa Roberto Iannilli, il famoso alpinista di Ladispoli che per oltre un trentennio aveva aperto vie sul Gran Sasso. ” Francamente non capisco perchè questo continuo affermare che l’alpinismo è morto quando non ci sono più vie nuove da aprire…  Io credo che, soprattutto dove viene praticato alpinismo clean o trad che dir si voglia, chiunque metta le mani su quelle rocce per la prima volta è alpinismo, esplorazione, scoperta..

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